Dopo aver lavorato alcuni anni in Tanzania, Burundi e Repubblica Democratica del Congo, nel settore della Cooperazione, molti mi hanno chiesto di raccontare e poi di scrivere la mia esperienza.
Per molto tempo ho esitato, perché non volevo parlare delle organizzazioni specifiche con cui ho lavorato. Le mie conclusioni, derivate dalle esperienze in prima persona, dalle chiacchiere informali con colleghi di altre organizzazioni e da studi e libri, abbracciano un orizzonte ben più ampio di quello che ho potuto toccare con mano. Questo orizzonte, per quanto ampio sia, è comunque limitato. Temevo di offrire delle conclusioni facilmente generalizzabili, contribuendo così a una visione del mondo semplificata, piatta e potenzialmente dannosa. Il mio obiettivo è invece quello di spiegare qualcosa di questo settore e delle sue difficoltà, per chi non lo conosce e aprire un dibattito per chi invece ci ha a che fare.
Farò quindi una presentazione, dalle prospettive di alcune delle persone e enti coinvolti.
Operatore umanitario – personale internazionale (expat)
Gli operatori umanitari (personale espatriato) sono delle persone che per un motivo o un altro sono finite a lavorare nel settore umanitario, principalmente per ONG (come Oxfam, Intersos, Medici senza Frontiere..) o per agenzie delle Nazioni Unite (UNICEF, World Food Program, UNHCR,..).
I ruoli che occupano sono principalmente dei ruoli di coordinamento: responsabile delle attività, delle finanze, della logistica, esperto di un settore specifico (come Salute, Educazione, Questioni di genere,..), come potete vedere su ReliefWeb, il principale portale di ricerca di lavoro del settore. Sono poche le organizzazioni che fanno lavorare il personale internazionale direttamente a contatto con le persone. Una di queste è Medici senza Frontiere, in cui i medici, infermieri, operatori sociali, formatori comunitari, vivono in piccole basi nelle zone di conflitto/disastri naturali, a diretto contatto con le persone del posto.
Gli altri, per intenderci, sono principalmente basati invece nelle grandi città di provincia (come io stavo a Goma, nell’est del Congo), capitali o centri regionali (come Nairobi per l’Est Africa, e Dakar per l’Africa occidentale). Questi operatori fanno si delle visite alle popolazioni per le quali lavorano, ma non vivono con loro. Vivono nelle basi delle organizzazioni, chiuse con muri e guardie dal mondo di fuori. Di giorno lavorano con il personale locale e internazionale e la sera escono nei bar e ristoranti (ex. le Chalet a Goma) dove si paga in dollari, cari, e dove ci si ritrova con altri expats che lavorano con altre organizzazioni. Questa bolla degli operatori umanitari viene definita dalll’ex-umanitaria e studiosa Severine Autassere come Peaceland (nell’omonimo libro tra l’altro molto interessante).
Al contrario dello Sviluppo (Development), che agisce in zone povere ma tranquille (come Senegal e Tanzania per esempio), l’Assistenza Umanitaria opera in zone di guerra, guerra civile, gruppi armati, disastri naturali o epidemie (come l’Ebola). L’obiettivo è teoricamente quello di salvare vite umane e restaurare la normalità della vita prima che entri in gioco lo Sviluppo. I progetti hanno una durata limitata e durano di norma massimo un anno. Tuttavia le crisi durano molto di più. Per esempio, nell’est del Congo è da quasi 30 anni (dal 1994, genocidio in Rwanda) che c’è una situazione di violenza e gruppi armati e ogni anno arrivano flussi di milioni di dollari e beni in assistenza umanitaria.
Questo fa si che le organizzazioni umanitarie rimangano sul posto molto a lungo, ma devono riuscire a finanziarsi con diversi fondi a durata limitata, forniti da Enti pubblici o internazionali ciascuno dei quali ha una loro area di attività e obiettivi pecifici. Per esempio: UNICEF finanzia progetti per bambini, UNHCR per rifugiati, UN-Women[1] per donne, e così come i grandi finanziatori internazionali: USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale) e DG ECHO (Direzione generale della Commissione Europea per l’assistenza umanitaria), ognuno con le sue priorità priorità geografiche e di tipo di intervento.
Le NGO che lavorano sul campo devono destreggiarsi per dare continuità alle loro attività, assicurandosi continuamente nuovi finanziamenti. Questi finanziamenti sono infatti necessari all’esistenza stessa delle NGOs. I salari degli expats, del personale locale, le macchine, il carburante, l’affitto delle basi , ecc è tutto coperto da una percentuale dei progetti che normalmente non può superare il 20% circa di un finanziamento: i cosiddetti costi indiretti dell’organizzazione. Il resto deve essere speso in beni e servizi forniti direttamente ai destinatari dell’intervento (chiamati nel gergo umanitario”beneficiari”).
Uno degli sforzi delle organizzazioni è quello di scrivere continuamente nuovi progetti per rispondere ai vari bandi pubblici. A volte questi bandi hanno una data di scadenza molto corta, persino di una sola settimana e questo è uno dei motivi per cui il lavoro è particolarmente stressante, perché in questi casi si lavora anche di notte fino all’ultima ora disponibile. Poi bisogna scrivere i vari rapporti intermedi e finali per ogni attività, raccogliere tutti gli indicatori per mostrare che le attività siano state ben fatte a livello di numeri previsti e di qualità, coordinare lo staff locale, occuparsi della visibilità sui social media e soprattutto gestire infiniti problemi che si possono presentare in contesti dove lo stato è molto debole: corruzione , truffe, problemi di sicurezza, un attacco armato a una delle tue squadre,..
Non tutte le ONG dipendono da finanziatori pubblici. MSF per esempio, che è una delle organizzazioni più grandi al mondo, dipende in buona parte da finanziamenti di privati e non deve perdere così tante energie nella ricerca di fondi ed è anche più libera di fare quello che vuole (non avendo grandi donatori con le loro condizioni).
L’assistenza umanitaria è in generale un lavoro estremamente stressante. Perché lo si fa?
Per diversi motivi. Io credo che chi inizia sia mosso principalmente dalla voglia di fare del bene, di aiutare gli altri e allo stesso tempo dalla curiosità di viaggiare per il mondo e dalla voglia di avventura.
Quando si inizia ci si confronta però con una serie infinita di problemi, come quelli menzionati prima e ci si rende conto che una buona parte del lavoro consiste nel fare ciò che chiedono i tuoi donatori e la tua organizzazione, e che questo è prioritario rispetto alle esigenze della popolazione locale. Per esempio, per scrivere un buon progetto, bisognerebbe prendersi il tempo per fare degli studi sul terreno, per riunirsi per mesi con i vari gruppi della popolazione locale, per capire il contesto, ecc. Quando arriva un donatore che apre un bando per una sola settimana, se parliamo di qualità, bisognerebbe spesso rifiutarsi di scriverlo.
Ma come spiegarlo alla tua organizzazione, che ha la necessità di fondi per poter sopravvivere? E così si scrivono progetti in breve tempo, si accetta, sotto richiesta dei donatori, di lavorare in nuove zone dove non si ha esperienza e dove non si è conosciuti dalla comunità locale, si fanno interventi più grandi di quelli che si potrebbe gestire, si privilegia la quantità sulla qualità. E così escono fuori progetti con migliaia di beneficiari per permettere al tuo donatori di spiegare al proprio governo, alla pubblica opinione o a chi che sia: “Voilà in questa regione abbiamo aiutato 50.000 sfollati, qui invece 130.000,..”. Sarebbe per loro ben più complicato infatti spiegare che tanti soldi siano serviti per aiutare poche persone, ma che per quelle persone la vita è veramente cambiata in meglio.
Il risultato sono spesso progetti ideati poveramente e che rischiano di fare più danni che altro, come del resto ogni tipo di intervento mal pianificato in qualsiasi altro settore. Solo che qui, i finanziamenti sono spesso molto ingenti. SI parla di centinaia di migliaia, a volte milioni di dollari. E sono scritti da persone arrivate da un’altra parte del mondo e che ha una bassa comprensione del contesto e dei problemi.
Per rendere l’idea, è come se a Roma ci fosse una catastrofe naturale, lo stato non fosse capace di gestirla e allora arrivassero diverse ONG da tutt’altra parte del mondo e per esempio un’organizzazione congolese gestisse alcuni ospedali, un’altra di nativi dell’Amazzonia ne seguisse altri (secondo i loro studiati metodi di medicina naturale) e un’altra di aborigeni australiani arrivasse in sostegno di alcune scuole con i loro metodi pedagogici. Tutto questo con progetti di durata di 6 mesi/un anno che a volte vengono prolungati e a volte no. Siamo d’accordo che sarebbe il caos.
Per tornare a noi, il nostro operatore umanitario cerca di fare del suo meglio, ma è abbastanza scoraggiato dei risultati. Tuttavia in questo settore ci sono organizzazioni che risaputamene lavorano meglio di altre e quindi la sua speranza è quella di passare il prima possibile a una di queste (più serie e professionali), in modo da sentirsi più utile alle persone e anche ricevere delle condizioni (salari, vacanze, bonus,..) migliori e più stabili.
Le condizioni lavorative sono un altro dei motivi per cui si lavora e si continua a lavorare in assistenza umanitaria. Se escludiamo le prime esperienze di lavoro, spesso tirocini, gli stipendi più bassi sono qualli al livello di MSF (Medici senza Frontiere) che offre circa 1700 euro/mese. Organizzazioni più grandi si aggirano verso i 2500/mese per le posizioni più basse fino a 7000 per posizioni più alte, per non parlare delle Nazioni Unite che offre i salari tra i più alti del mercato. Al salario si aggiungono generalmente i giorni di vacanza, gli R&R (Rest and recuperation) nel quale ogni 3 mesi circa si è pagati per uscire dal paese a andarsi a rilassare in qualche posto tranquillo tipo Zanzibar per una settimana, e assicurazione sanitaria internazionale.
Questo può sorprendere molti che credevano che chi lavora nel settore umanitario lo faccia solo per passione e con pochi soldi. In effetti, credo che una buona parte delle NGO sia nata proprio da volontari, non pagati, che andavano nelle situazioni di crisi e aiutavano come meglio credevano. Con il tempo si è visto che la mancanza di professionalità e di controllo ha portato però a enormi errori (pagati come sempre dalla comunità locale) e quindi il settore si è andato via via professionalizzandosi e ora richiede studi specifici ed esperienze pregresse. In cambio ovviamente deve offrire salari e condizioni attraenti.
Alla voglia di fare del bene, di viaggiare e di avventura, ai salari e condizioni lavorative, si aggiunge anche la capacità di incidere nella realtà (e il potere).
Se veniamo da un paese come l’Italia dove a 30 anni si è ancora considerati come ragazzini, dove si è bloccati in rigide gerarchie e dove per fare una qualsiasi cosa, tipo tirare su un muro da una parte, servono infiniti permessi, non parrà vero di trovarsi in una situazione dove a 30 anni si è in dei ruoli di responsabilità, dove si è considerati, dove, se si ha un’idea, la si può realizzare e vederla realizzata nel giro di pochi mesi. Questa sensazione di responsabilità, questo potere di azione nella realtà, credo che sia uno dei punti forti e allettanti del mestiere. A questo si aggiunge anche una questione di pelle. Anche non volendo, vivere come bianco o straniero in un paese di neri e dove c’è povertà, abitua ad essere trattato con una attenzione e deferenza impensabili nel nostro paese e questa sensazione di potere interpersonale, a lungo andare, rischia di assuefare.
Operatore Umanitario – personale locale
Per rispondere a tutta questa serie di problemi, l’assistenza umanitaria fa continuamente degli sforzi e delle grandi campagne per migliorarsi. Una di queste è la localizzazione dell’assistenza umanitaria, che implica in poche parole che le persone locali siano sempre di più i veri attori della risposta. E’ anche per questo che la maggior parte dello staff delle ONG è attualmente staff locale. Sono loro che stanno li per anni, che conoscono in profondità l’organizzazione e che lavorano a diretto contatto con i beneficiari.
Perché lo fanno? Da un lato, perché molte aziende in cui lavoravano non esistono più, quindi gli ex ingegneri/architetti di costruzioni/lavori pubblici si sono riconvertiti in ruoli umanitari come responsabili WASH (acqua, servizi sanitari e igiene) o ingegneri di riabilitazione di scuole.
Lo fanno per aiutare la loro comunità ma anche perché è un lavoro ben pagato (anche se molto di meno dello staff internazionale, già 1000 dollari/mese sono comunque un ottimo stipendio) in un contesto destrutturato come quello umanitario, dove c’è in generale mancanza di lavoro.
E’ proprio il personale locale che è coinvolto in prima persona nella gestione di progetti enormi come la distribuzione di milioni di dollari alle famiglie di persone sfollate e vulnerabili, sono loro che visitano casa per casa, famiglia per famiglia, e riempono i criteri di vulnerabilità, permettendo a una famiglia o a l’altra di entrare nei programmi di assistenza. E’ inutile dire che questo enorme potere lascia spazio alle truffe come quella che ha coinvolto l’organizzazione americana Mercy Corps nel 2018 in DRC, dalla quale si stima una frode da più di 600.000 dollari e che che nei due anni precedenti potrebbero essere stati “persi” circa 6 milioni di dollari da diverse organizzazioni.
Popolazione locale, i “beneficiari” dell’assistenza
Se prendete una Land Cruiser e salite lungo le strade fangose del Nord Kivu, se passate attraverso le verdi colline che danno al Territorio di Masisi il nomignolo di “Piccola Svizzera”, troverete anche i villaggi di case di fango, e finalmente loro, le comunità del posto, gli accampamenti di sfollati interni, le loro storie di vita e di sofferenza. Tutto questo e soprattutto la loro povertà, non sembrano minimamente scalpiti da circa 30 anni di sostegno internazionale. L’unico indizio sono i molti cartelloni che si susseguono lungo la strada indicando i progetti che hanno avuto luogo, il donatore e i loghi delle organizzazioni coinvolte, qualche scuola e dei pozzi per l’aqua. Lo scopo dell’assistenza umanitaria è principalmente quello di tenere in vita le persone, non di lasciare traccia a lungo termine, ma possibile che i grandi fiumi di finanziamenti da più di 30 anni abbiano lasciato così pochi segni?
Autorità locali
Una delle cose che più mi ha colpito è la mancanza di cooperazione e sostegno da parte delle autorità locali nei confronti delle organizzazioni umanitarie. All’inizio pensavo ingenuamente che gli operatori umanitari fossero visti come qualcuno che sta li per far del bene e per aiutare la popolazione, e che quindi ci fosse un occhio di riguardo nei loro confronti. Sarei stato sorpreso di scoprire che le autorità locali, dal più semplice poliziotto per strada, ai ministeri regionali e oltre, utilizzano ogni astuzia in loro potere per tartassare le organizzazioni, anche a scapito della loro operatività. Per fare un esempio, quando ho chiesto il visto, il mio passaporto si è perso per mesi nell’ufficio centrale per non aver voluto “facilitare” il processo.
Il potere che le autorità locali hanno sulle organizzazioni umanitarie è molto alto, perchè sono loro che le autorizzano a lavorare nel paese, e nei vari settori. Per esempio, una ONG medica che vuole sostenere un ospedale di una regione X, deve avere l’autorizzazione del ministero della salute, oltre che quella del Ministero dell’immigrazione per quanto riguarda i visti del proprio staff internazionale e di altri ministeri. Senza queste autorizzazioni semplicemente non può stare li e non può lavorare.
La Repubblica Democratica del Congo è un caso speciale perché ha tra i più alti livelli di corruzione al mondo, dovuti probabilmente all’era di Mobutu (dittatore dal 1965 al 1996) quando i funzionari pubblici erano invitati ad arrangiarsi per sopperire ai loro bisogni dato che i salari non arrivavano od erano insufficienti (il famoso “articolo 15“).
A questo, come in molte crisi umanitarie, si aggiunge una disgregazione del tessuto sociale per cui al funzionario X può essere che non importi un bel niente del suo fratello congolese, bisognoso di aiuto.
Tuttavia, questa indifferenza delle autorità locali potrebbe anche far pensare al fatto che non si sia visti come persone generose e “altruiste” ma come qualcuno che fa i propri interessi, con alti salari e che si approfitta della povertà della loro gente. E questo potrebbe autorizzarli moralmente a riempirsi le tasche, senza farsi troppi scrupoli, “se lo fanno loro, perché io no?”.
Gruppi Armati
La storia di violenza e sofferenza nell’est del Congo affonda le sue origini a persino prima della colonizzazione Belga, a quando la zona era controllata da mercanti arabi come Tippo Tip, che commerciavano avorio e schiavi e che hanno tra l’altro introdotto lo swahili nella regione. Un libro molto ben fatto, che si chiama Congo, di David Van Reybrouck, spiega come da li si, sia arrivati all’attuale situazione di oltre 100 gruppi armati nel Congo Orientale. Gruppi grandi, gruppi piccoli di due e tre persone, che nascono, si fondono, che controllano una collina, una strada o un territorio intero, con nomi altisonanti come “Alliance des Patriotes pour la restauration de la démocratie au Congo “.
Entrare in un gruppo armato è spesso una delle poche opportunità che hanno i giovani del posto. Sono loro “i cattivi”, la grande causa della sofferenza in questa regione del mondo. In parte finanziati da paesi vicini, da interessi internazionali, in parte sostenuti dal controllo di miniere, dalle tasse che impongono ai piccoli commercianti locali, questi gruppi lasciano invece passare indisturbata la maggior parte delle organizzazioni umanitarie. Perché?
Possiamo credere che i gruppi armati non siano, a priori, contrari all’accesso alla salute, al cibo e così via per la loro popolazione. Il loro obiettivo è spesso quello di conquistare un territorio, controllare un’area, ecc. ma non sempre quello di far morire di fame la loro popolazione. Qualcuno o i loro figli e le loro famiglie potrebbero usufruire di servizi come quelli medici, e peraltro molte ONG ottengono l’accesso al territorio attraverso negoziatori che ricordano le Convenzioni di Ginevra (e a volte con l’aiuto di qualche pacchetto di sigarette).
Tuttavia emerge una domanda: questi gruppi guadagnano direttamente dall’assistenza umanitaria? Una parte del denaro e dei beni distribuiti finisce in realtà nelle loro tasche?
E se è così, dato che sono proprio una delle cause principali della sofferenza che si vorrebbe alleviare, come facciamo a sapere che stiamo facendo più bene che male?
L’assistenza umanitaria dovrebbe essere neutrale e avere come principio l’umanità, quindi anche se, aiutando la popolazione bisognosa, un po’ di “aiuto” finisce nelle tasche di qualche gruppo armato, dovrebbe andare bene.
Tuttavia, se i gruppi armati guadagnano così tanto dall’assistenza umanitaria, tanto da commettere violenze e massacri proprio per mantenere una situazione “umanitaria” e garantirsi il flusso costante di nuovi progetti e fondi dai quali lucrano, allora non va più bene.
In effetti, la domanda rimane senza risposta, dato che in questi paesi disastrati e corrotti come la RDC non c’è nessuna agenzia statale o internazionale che non ci guadagni qualcosa da questa grande macchina umanitaria e che abbia quindi interesse a studiare in profondità i suoi effetti negativi.
Quello che però si può dire è che già nel 1994, all’inizio della grande crisi umanitaria nell’est della DRC, nel campo rifugiati di Mugunga a Goma (a lungo uno dei più grandi al mondo) si trovavano, mischiati tra le famiglie di rifugiati, gli stessi gruppi armati hutu responsabili del genocidio dei Tutzi in Rwanda, che hanno largamente approfittato e si sono ricostituiti grazie all’assistenza umanitaria. Li, secondo il libro di Linda Polman “What’s wrong with Humanitarian Aid?” alcune organizzazioni internazionali hanno stimato che, in media, I gruppi armati hutu si sono impossessati di circa il 60% dei beni distribuiti, in parte per il loro uso e in parte per rivenderli ai civili. Questa situazione era così evidente che ha portato, nel dicembre 1994, MSF Francia a lasciare il campo con un comunicato che denunciava questa situazione. Subito dopo, altre branche di MFS hanno preso il suo posto e le altre NGO hanno continuato a lavorare nel campo di Mugunga come se nulla fosse, finanziate da un enorme flusso di finanziamenti internazionali.
Donatori
Da dove vengono tutti questi soldi e quanti sono? Al contrario dello Sviluppo, nel caso dell’assistenza umanitaria i soldi non sono prestati ma vengono in effetti “regalati”. Si tratta di molti soldi, ma molti meno che quelli dello sviluppo. Una parte dei soldi viene dalle donazioni dei privati, ma si tratta della parte più piccola. I fondi vengono infatti principalmente dagli Stati e dai loro enti predisposti alla distribuzione di fondi. Nel 2021 il totale dei soldi donati (da donatori ufficiali) è stato di 29.3 miliardi di dollari, quindi circa un sesto di quelli dello sviluppo. I principali finanziatori dell’assistenza umanitaria sono gli Stati Uniti tramite il loro ente USAID, che da solo finanzia 11.6 miliardi di dollari, il 38% del totale. Subito dopo c’è la Commissione Europea, Germania, Svezia ecc. (OCHA).
Perché lo fanno? Teoricamente per una questione puramente filantropica, dato che i capisaldi dell’assistenza umanitaria sono proprio: umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza. Tuttavia, quando si scopre che il principale donatore sono proprio gli Stati Uniti, può venire il dubbio che non si tratti solo di altruismo.
Che interessi può avere uno stato a dare soldi in assistenza umanitaria?
In effetti l’assistenza umanitaria può essere uno strumento di politica estera di uno stato, uno strumento molto pulito per altro, dato che è comunemente ritenuto come qualcosa di buono e generoso. In un piccolo articolo che avevo scritto durante il master avevo analizzato i finanziamenti di ECHO (Assistenza Umanitaria della Commissione Europea) nel 2016. In questo caso, più del 50% dei finanziamenti sono stati assorbiti dalla crisi siriana e dai paesi limitrofi, probabilmente per contenere il flussi di rifugiati verso l’Europa e che erano stati rimandati in Turchia dalle isole Greche.
In altri paesi come La Repubblica Democratica del Congo ci sono ricchezze minerarie enormi e ci si può chiedere se ci siano in qualche modo dei legami tra il flusso di soldi in assistenza umanitaria e lo sfruttamento di queste miniere.
In altri paesi non emergono chiaramente grandi ricchezze che spieghino possibili doppi fini degli aiuti.
L’Internazionale del 16 dicembre 2022 riprende un articolo del New York Times sul riavvicinamento degli Stati Uniti all’Africa. L’Africa è uno dei continenti con la più grande crescita demografica e si stima che entro il 2050 ospiterà un quarto degli abitanti del pianeta, costituendo quindi un enorme nuovo mercato economico e motivo per il quale Cina e Russia stanno aumentando esponenzialmente la loro influenza sul continente. Secondo L’articolo:
“ ..gli Stati Uniti continuano a esercitare un’importante influenza in Africa. I diplomatici americani hanno avuto un ruolo cruciale nel recente accordo di pace in Etiopia e sono stati gli attori esterni più rilevanti in Somalia nella lotta contro i militanti di Al Shabaab. Washington invia miliardi di dollari di aiuti negli angoli più poveri del continente, molto più della Cina e della Russia.” (Internazionale 1491, p.29)
Da cui appare come gli aiuti inviati siano considerati come uno strumento di politica estera utili a mantenere un’influenza su paesi e continenti.
Come questo funzioni effettivamente, per me è ancora un mistero. Quando ho fatto un tirocinio alla Commissione Europea, in uno degli uffici geografici che si occupava dei fondi umanitari, ho partecipato alla selezione dei finanziamenti e progetti per Il Sud Sudan per l’anno 2017. Quello che ho potuto vedere è che non solo non c’è stata nessuna influenza esterna nella scelta, ma che tutti cercavano veramente di scegliere i progetti migliori e fare del loro meglio. La scelta invece su quanti milioni di euro mandare in generale a un singolo paese/crisi o un’altra, quella è una scelta politica sulla quale il Parlamento Europeo e i paesi membri possono avere più o meno informalmente una certa influenza.
Conclusione
Per concludere, è evidente come l’assistenza umanitaria abbia inevitabilmente anche delle ripercussioni negative. La questione chiave è: siamo sicuri che il bene che si fa sia superiore ai danni, soprattutto a lungo termine? Anche nelle organizzazioni più “puritane” come MSF c’è un dibattito sul fatto che offrendo un servizio medico di qualità e gratuito, a lungo andare si impedisca lo sviluppo di ospedali e strutture locali.
Molti colleghi di diverse NGO, hanno risposto alla domanda dicendo che “si, la situazione è complicata ma se uno salva anche una sola vita, questo da solo da un senso a tutto”. Tuttavia qui stiamo parlando di grandi programmi finanziati con milioni di dollari, che dovrebbero avere un effetto positivo in grande scala e complessivo, non possono essere giustificati solo da “alcune vite salvate”.
E’ necessario che sia chiaro che complessivamente si faccia più bene che male. Al momento però la domanda rimane senza una risposta chiara dato che, come detto prima, mancano strutture indipendenti e i cui fondi non siano legati a quelli del settore umanitario, e che abbiano come missione quella di fare delle ricerche serie e approfondite ed esprimersi a riguardo.
Personalmente credo che se si vuole cambiare il mondo in meglio bisogna uscire fuori dalle logiche di guadagno e di interessi che sono alla base della sofferenza che si vorrebbe alleviare. Il settore umanitario si è andato via via professionalizzando e così facendo, volente e nolente, è diventato un meccanismo del sistema, dove il lato umano, i valori, la voglia di fare del bene e l’altruismo hanno preso sempre di più un ruolo secondario.
A chi mi chiede: “Quindi, che fare, a chi si può donare dei soldi?” spesso rispondo: “a delle piccole organizzazioni o delle persone che lavorano in piccolo ma in qualità, che lo fanno perché ci credono veramente e lo fanno per anni e anni anche se non hanno uno stipendio fisso e buone condizioni, a una signora congolese che mantiene a casa sua 15 bambini di strada, a Yaneth di Lila Mujer che lavora ogni giorno a Cali in Colombia con donne sieropositive, a infinite altre che potrete incontrare o a un vostro amico che semplicemente ne ha bisogno.
Questo non vuol dire che tutte le grandi organizzazioni siano da buttar via. Milioni di persone dipendono attualmente da progetti umanitari in tutto il mondo e, come molti ex colleghi, credo che se si ritirasse di colpo l’assistenza umanitaria, sarebbe probabilmente una catastrofe.
Detto ciò, donare una parte dei nostri soldi non è che un modo limitato e spesso grossolano di incidere nella realtà. Se per averli abbiamo contribuito anche indirettamente, con il nostro lavoro, con il nostro stile di vita, ad alimentare un sistema economico basato sull’ingiustizia e l’individualismo che sono le grandi cause del dolore nel mondo, allora siamo evidentemente di punto accapo.
Per far veramente “del bene” è probabilmente necessario vedere il mondo con occhi aperti e nella sua complessità e andare nel profondo di noi stessi per vincere i semi di rabbia, paura e di ego che ognuno ha dentro di se, per evitare che basti una qualsiasi situazione per farli germinare.
E’ necessario imparare ad affrontare un problema senza distogliere lo sguardo o agire a tutti i costi solo perché guardare fa troppo male. Il paradigma con cui siamo cresciuti, “fare è sempre meglio che non fare”, potrebbe non essere più valido, e forse non lo è mai stato.
[1] Potrebbe sorprendervi, ma la maggior parte delle agenzie delle Nazioni Unite, non lavora direttamente “sul campo”, ma affida i fondi ad ONG internazionali o locali per fare il lavoro ed hanno un ruolo di selezione dei partner attraverso bandi pubblici, controllo qualità e sostegno esterno. Tra le agenzie UN che fanno un lavoro diretto c’è OIM.